sabato 26 novembre 2016

Rita Cuccuru, Sogno Mondiale.
"Buongiorno Cuccuru". "Buongiorno Sannelli".
Così inizia la giornata Rita Cuccuru: sentendosi con il suo allenatore Federico Sannelli per programmare i test e gli allenamenti a cui sottoporsi, con in testa il prossimo traguardo da tagliare.
Un rapporto importante tra i due che prosegue da 4 anni. A detta di Sannelli, lei "è stata l'inizio di tutto", di tutto quello che adesso è OTB e delle 7 medaglie conquistate a Rio. La Cuccuru è stata infatti la prima atleta seguita da OTB che ne ha curato il delicato passaggio dall'handbike al Triathlon. Da lì in poi "siamo cresciuti insieme, io come tecnico e lei come atleta" prosegue Sannelli.
Rita si affaccia al mondo del triathlon con grandi incertezze e senza saper nemmeno nuotare: in vasca non arrivava a fare 10 metri. Ma ricorda quei momenti con grande divertimento e grande soddisfazione per i progressi fatti in questi 4 anni. E il Dvd delle riprese di quelle prime bracciate in vasca lo tiene in bella vista sullo scaffale di casa sua: perché bisogna sapere da dove si parte per arrivare lontano.
Rita Cuccuru lo sa bene da dove arriva e ne è orgogliosa: La Sardegna è la sua amata terra e lo sport è il suo riparo dalla tempesta.
Nel 1995 infatti, mentre nella radio passa "High and Dry" nuovo singolo dei Radiohead, un incidente stradale le porta via la facoltà di camminare, ma non la voglia di correre. Spronata da sua sorella Giovanna, Rita si avvicina all'handbike ritrovando quella spinta vitale che le mancava.
Questa spinta con il supporto del coach Sannelli la motiva a lavorare, a sudare e a piangere per dei nuovi e più grandi obbiettivi. E i risultati non tardano ad arrivare:
Si qualifica Campionessa Italiana di ParaTriathlon nel 2014 e nel 2015. Nel 2014 vince il mondiale di Duathlon a Pontevedra, città spagnola famosa come la "città senza automobili" per essere stata pedonalizzata quasi interamente, un occhiolino del destino ad una persona che deve la sua disabilità ad un incidente automobilistico. 
Il 2015 è  l'anno che segna il suo ingresso nel Team Equa, coach Sannelli invero lavorava già da diversi mesi in Equa e il presidente Ercole Spada, da buon sardo, voleva fortemente Rita con sé e così l'abbraccio con il team è stato una normale conseguenza.
Ma il 2015 è anche l'anno che racchiude la più scottante delusione sportiva e la più gratificante soddisfazione della sua carriera. Un momento di buio e un momento di luce:
Il momento più buio arriva a Chicago, in occasione del campionato del mondo, dove non riesce a raggiungere la medaglia che invece l'anno prima aveva fatto sua, con un terzo posto ad Edmonton. La fredda oscurità della sconfitta si fa sentire.
Il momento di luce invece accade nella città natale del protagonista del celebre romanzo di Mary Shelley "Frankenstein, o il moderno Prometeo", titano greco noto secondo la leggenda, per aver rubato il fuoco degli dei donandolo agli uomini. La luce di quel fuoco irradia anche Rita: A Ginevra infatti diventa Campionessa Europea di Paratriathlon a seguito di una gara perfetta. Un successo prestigioso che è stato la chiusura di un percorso importante.
Il 2016 per Rita è stato un anno di transizione che ha segnato il ritorno dal triathlon all'Handbike: stagione in cui peraltro è stata la seconda migliore in Italia, dietro alla campionessa del mondo Francesca Porcellato.  
La prossima sarà una stagione importante, orientata verso un unico obbiettivo: Il mondiale in South Africa che si svolgerà alla fine di Agosto.
Si selezioneranno alcune competizioni internazionali e gare di coppa del mondo puntando ad una convocazione nella nazionale italiana, con in mente un grande sogno. Quella gara in South Africa.
Gara prima della quale seguirà il solito rituale: si scriverà sul braccio il nome del suo angelo custode, Mamma Emilia, nome che ora è impresso in bianche lettere anche sulla sua Handbike (vedi foto sotto). Gara in cui pedalata dopo pedalata cercherà di portare l'Italia e la sua Sardegna sul gradino più alto del mondiale. 
Al suo fianco Federico Sannelli, pronto ad aiutarla a realizzare quel Sogno:
"Buongiorno Cuccuru"  non smettere di sognare, perché "quando sogna, l'uomo è un gigante che divora le stelle."
R.M.







mercoledì 9 novembre 2016

"El Papu" Gomez e l'isola che non c'è
Alejandro Gomez potrebbe benissimo essere un personaggio ideato dalla mente di James Matthew Barrie, che seduto su una panchina ad Hyde Park diede vita ad uno dei personaggi più amati della letteratura: Peter Pan.
La vita del Papu ricorda in molti aspetti quella del ragazzino vestito di verde che volando verso la seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino raggiungeva l'isola che non c'è.
Il bambino di albiceleste vestito infatti non è mai cresciuto, si è fermato a 165cm e ha mantenuto un irriverente gioia di vivere che solitamente palpita nelle rotondità delle guance dei bambini. L'ultimo episodio che ne evidenzia l'essenza di eterna fanciullezza è la fascia di capitano raffigurante "Holly e Benji" che il Papu ha indossato in occasione di Sassuolo-Atalanta. Gara che per inciso la Dea ha vinto per 0-3 e dove Gomez ha aperto le marcature con un gol da rapace.
Ma la storia di Papu Pan inizia in Argentina, in quella Buenos Aires che ha dato i natali a svariati artisti del fùtbol, e precisamente nel Arsenal Fùtbol Club dove alla precoce età di 14 anni viene convocato nel ritiro precampionato con la prima squadra. 
A soli 17 anni, poi, l'allenatore del club di Sarandì, tal Jorge "Burru" Burruchaga ne rimane folgorato e lo fa esordire.
Nei quattro anni che seguono il Papu colleziona 77 presenze e 14 gol, di cui i più importanti sono i due segnati in finale della Copa Sudamericana, che ne valgono il titolo, nel leggendario Stadio Azteca, unico stadio insieme al Maracanà  ad aver ospitato due finali dei mondiali e che nel '86 ha visto trionfare l'Argentina per 3-2 contro la Germania, proprio con un gol del suo allenatore Burruchaga; corsi e ricorsi della storia.
Il sodalizio con i propri allenatori è un altro fil rouge nella carriera del Papu: infatti nel 2009 passa al San Lorenzo, squadra che vanta un tifoso speciale in Città del Vaticano, dove viene allenato da un giovane allenatore che negli ultimi anni sta avendo una carriera di altissimo livello e che probabilmente in questo momento è tra i primi 3 allenatori al mondo: El Cholo Simeone
L'esperienza con i Boedi dura solo un anno perché nell'estate del 2010 Gomez sbarca nel calcio europeo, al Catania, dove un anno dopo lo raggiunge come tecnico il Cholo che con il tridente albiceleste composto dal Papu, Maxi Lopez e Bergessio conquista una strepitosa salvezza.
I tre anni a Catania sono emozionanti e pieni di vita per Gomez e terminano nel 2013 quando, al top della carriera, sbaglia scelta di vita e va a giocare in Ucraina. Quella al Metalist è l'unica esperienza grigia di una vita a colori che però si riaccende subito d'azzurro nel 2014: Il Papu infatti sposa la causa bergamasca e firma con l'Atalanta, squadra che in quanto ad argentini la sa lunga. Da Humberto Maschio a German Denis passando per Caniggia la Dea ha sempre sospirato per i campioni che provengono dalla terra del fùtbol.
Il Papu con l'Atalanta gioca sempre meglio ogni stagione, con un crescendo di prestazioni che lo hanno innalzato ad idolo della curva atalantina e alla fascia di capitano.
L'estate appena trascorsa è stata all'insegna dei balletti in riva al mare o a bordo piscina e ha visto due assoluti protagonisti:
Gianluca Vacchi e il Papu Gomez
Infatti il capitano dei bergamaschi è un fenomeno di simpatia oltre che sul campo da gioco, perché la sua indole bambinesca è una risorsa preziosa, una qualità che ne fa di lui un inno al calcio romantico, quello giocato per passione da un bambino nella sua cameretta con una pallina ricoperta di polvere di stelle.
L'Atalanta di quest'anno, guidata da un maestro di calcio come Gasperini, sta facendo sognare tifosi e appassionati con grandi prestazioni a suon di gol e di giocate ad alta velocità. Una squadra giovane capitanata da un ragazzo non più giovane ma che non vuole crescere mai..
Papu Pan.
R.M.





sabato 22 ottobre 2016

PAOLO CECCHETTO, L'uomo che visse due volte
Ho conosciuto un uomo. Un uomo il cui carisma ha il particolare dono di rendere l'aria frizzante. Tutti quelli che incrociano il suo sguardo sorridono spinti da una magica empatia.
L'ho conosciuto in una giornata di festa, in cui si celebrava uno straordinario team e delle eccezionali vittorie, tra le quali spicca la sua grande impresa. Lui, che di quel team è il capitano, è Paolo Cecchetto e la sua è una storia di rivalsa e di talento perché, come scoprirete leggendo, lui prima di tutto è un fenomeno. 
La sua incredibile storia inizia con un incidente in moto in seguito al quale, a 22 anni, perde l'uso delle gambe divenendo paraplegico. Quello che per molti poteva essere un epilogo per lui è un inizio, perché si hanno due vite, e la seconda comincia il giorno in cui ci si rende conto che non se ne ha che una. Paolo lo capisce e incomincia a vivere di sport e di affetti. Per 12 anni si dedica anima e corpo all'Atletica paralimpica con la wheelchair ottenendo ottimi risultati, poi per 2 anni gioca a Basket in carrozzina a Cantù e Varese e infine prova anche l'Hockey su ghiaccio in carrozzina. Nel frattempo si sposa e ha tre figli. Il Cecco, come lo chiamano gli amici, è un cannibale sportivo. Non è mai sazio e vuole sempre trovare nuovi stimoli arrivando così all'incontro con l'handbike che gli cambia letteralmente la vita, travolgendolo di passione. Viene inserito nella categoria H3 nella quale dal 2000 al 2015 vince diversi Titoli italiani e nel 2008 si aggiudica il titolo di Campione Europeo, primo italiano a raggiungere un successo così prestigioso nell'handbike. Questi risultati gli valgono la convocazione per le Olimpiadi di Londra 2012, altra tappa fondamentale della sua storia: infatti, dopo una gara straordinaria disputata sempre al comando, Paolo commette un errore e si schianta quando era oramai in odore di medaglia. Quelli che seguono sono momenti difficili, l'insaziabile fame di vittorie di Cecco svanisce e, come mi ha rivelato lui stesso: "mi sono buttato giù e per un anno ho smesso di correre, perché quando un atleta non ha la testa il corpo non lo segue". Nel momento di massima crisi però interviene una figura fondamentale per Paolo Cecchetto, un leone che non ha mai smesso di credere in lui e che con la promessa di creare un squadra lo fa tornare a correre: Il leone è Ercole Spada, che costruisce il Team Equa  intorno a Cecchetto mettendogli a disposizione il meglio. Ercole chiama il coach Federico Sannelli, preparatore atletico professionale, nominandolo direttore tecnico del Team Equa. Cecchetto è molto competente e per questo è anche molto esigente  e siccome con il coach c'è una grande differenza di età (infatti Cecchetto è nato nel 1967 mentre Sannelli è classe 1990) il periodo iniziale è un periodo di studio in cui Paolo mette alla prova le competenze e la professionalità del nuovo coach. Scoprendo una persona che ha la sua stessa competenza e dedizione al lavoro nasce fra loro un feeling che Sannelli definisce "speciale, di totale sintonia e continuo confronto perché Paolo è una persona che ti fa appassionare a quello che fa e a quello che ti chiede di fare per lui". Il confronto fra i due diviene fondamentale, perché ogni scheda di allenamento e ogni variazione sulla preparazione è discussa con Cecchetto e realizzata grazie ad un lavoro simbiotico tra atleta e allenatore.  Il lavoro così strutturato porta subito i suoi frutti e nel 2015 Cecchetto si conferma Campione Italiano in linea battendo il campione del mondo Vittorio Podestà. Proprio i duelli con il campione del mondo sono un grande stimolo per Paolo che ne conosce l'importanza  "perché non ti puoi nascondere, se perdi sei fuori e se vinci sei ad altissimi livelli e io voglio essere al top".  Grazie al lavoro e ai risultati arriva la chiamata più agognata: la convocazione per le Olimpiadi di Rio 2016. Studiando il percorso il coach e l'atleta si accorgono che è adatto alle sue caratteristiche: prima del rettilineo finale infatti c'è una curva a 90 gradi molto tecnica e Sannelli mi rivela che "Paolo è un fenomeno, al mondo non c'è nessuno con la sua capacità di guida".  Nel 2016 tutta la stagione viene improntata per la preparazione della gara olimpica: ritiro in Liguria fin da Gennaio e una preparazione studiata per essere al 110% a Settembre. A Maggio arriva un test importante, la Coppa del Mondo in Belgio, dove Cecchetto termina secondo in volata confermando le buone sensazioni in vista dell'olimpiade.  Finalmente dopo tanta attesa si parte per Rio, i giorni che precedono la gara sono contrassegnati dalla tranquillità e dalla concentrazione: Paolo infatti non è uno di quegli atleti che hanno bisogno di sentirsi dare indicazioni fino all'ultimo come lui stesso mi riferisce "il mio modo di concentrarmi è particolare, chi mi è vicino deve prepararmi i materiali e deve essere competente quanto me, non c'è bisogno che parli. Perché io non cerco sicurezze da un allenatore, non sono un insicuro". La preparazione Cecchetto-Sannelli è perfetta e nei giorni che precedono la gara Paolo si accorda con Podestà per una strategia di gara che riescono ad attuare : Podestà tiene il ritmo e Cecco gli rimane attaccato. Nelle ultime curve partono tutti all'attacco e Cecchetto riesce a farsi strada e ad imboccare l'ultima curva, quella a 90 gradi che tanto avevano studiato: come pronosticato ripartono tutti da fermo. Tutti tranne uno, che dopo aver eseguito una curva da fenomeno assoluto qual'è si invola in solitaria verso il traguardo con il sorriso stampato sulla faccia. Sullo sfondo si intravedono due figuri che quasi si buttano al di là delle transenne tanta è l'emozione ed il trasporto: sono il suo coach Federico Sannelli e l'uomo che più di tutti ha creduto in questo momento, Ercole Spada. Paolo taglia il traguardo con le braccia alzate verso il cielo e una gioia che non può essere contenuta nei confini di un corpo umano. Oro Olimpico. La medaglia più prestigiosa, il traguardo più agognato da un atleta è di Paolo Cecchetto
La sua intervista a caldo è qualcosa di eccezionale: Cecco è lucidissimo ad analizzare la gara, ringrazia Podestà per l'aiuto e poi si abbandona alla felicità più assoluta con un grido che scuote Rio de Janeiro, pronunciando la mitica frase "sono così felice che ora posso camminare. Posso camminare!"
Persino Alex Zanardi, non uno che scherza in quanto ad eccellenza umana, dice di Cecchetto emozionando tutti "Pensate a Paolo Cecchetto, quante notti non avrà dormito dopo la delusione di Londra 2012 e adesso quante notti non dormirà per la felicità di Rio 2016". 
Lo stesso Zanardi che alla vittoria del Cecco Twittava "Siamo strafelici per Paolo Cecchetto: Oro!!! Da Londra a Rio, from zero to hero", quella sera usciva a prendere delle birre per festeggiarlo.
Adesso il Cecco sta già lavorando con il suo coach per la prossima stagione, per il prossimo traguardo. Come sempre un cannibale mai pago.
Questa è una storia sul talento di un fenomeno, dell'Uomo che visse due volte.
R.M.


venerdì 14 ottobre 2016

Matthew Le Tissier, "Le God"
4 Novembre 1986. Coppa di Lega. Si gioca al "The Dell", storico stadio del Southampton, che per l'occasione ospita il Manchester United. I padroni di casa asfaltano i red devils: 4-1. E un ragazzo di 18 anni che arriva da un'isola sperduta nella Manica, tal Matthew Le Tissier, segna una doppietta. Sono i suoi primi gol con la maglia dei Saints e costano la panchina all'allenatore dello United, Ron Atkinson, rimpiazzato con un scozzese figlio di operai che masticando un chewing-gum aveva già vinto 3 Campionati scozzesi e alzato 4 volte la Coppa di lega con l'Aberdeen: si chiamava Alex Ferguson e qualche anno dopo verrà insignito del titolo di "Sir" e nominato miglior allenatore del 21esimo secolo.
I primi gol di Le Tissier non sono banali, come mai banale sarà la sua carriera. 
Nasce a Guernsey, un isoletta tra l'Inghilterra e la Francia, il 14 Ottobre 1968. Esattamente il giorno in cui, dall'altra parte del mondo, nelle Olimpiadi in Messico Jim Hines vince i 100m scendendo per la prima volta nella storia sotto il muro dei 10 secondi (9"95 il suo tempo). Come vi dicevo: mai banale il nostro Matthew.
Dopo aver giocato e dominato il panorama calcistico sulla sua isola, decide di spostarsi nell'Hampshire dove viene preso nelle giovanili dei Saints e indossa per la prima volta la maglia a strisce bianco-rossa. Non giocherà mai più con nessun'altra maglia. 
Il legame che si crea nei 16 anni trascorsi insieme tra Le Tissier e i tifosi del Southampton è unico, come si può comprendere dal soprannome affibbiatogli: "Le God". Infatti tutti gli avversari che venivano in trasferta al The Dell si trovavano di fronte ad uno striscione che recitava così: "Benvenuti nella casa di Dio".
Mai banale, nemmeno nel soprannome.
Ma chi era Matthew Le Tissier come giocatore per essere così amato? una star rockeggiante come George Best? un idolo da copertina come David Beckham? No nulla di tutto questo, era un omone sgraziato di 186 centimetri, con una pancetta da Pub che non provava nemmeno a nascondersi sotto la maglietta bianco-rossa. Non aveva grande corsa e non disponeva di una forza fisica straripante. Ma il ragazzo aveva un talento che non aveva bisogno di essere supportato dal fisico: in tantissime immagini lo vedrete dribblare gli avversari quasi camminando e appena aveva un briciolo di spazio calciava verso la porta dei siluri dalle traiettorie imprendibili. 196 gol con i Saints giocando come fantasista in un calcio di grande corsa come quello inglese. La maggior parte dei gol sono segnati dalla lunga distanza, così non occorreva stancarsi troppo con la corsa e si poteva pensare al Coca-Malibu che lo aspettava al Pub. Un tiratore eccezionale che segnò 48 dei 49 rigori calciati in carriera. 
Non mancarono le possibilità a questo fenomeno d'altri tempi per raggiungere il successo nel grande calcio: lo contattarono  Tottenham, Liverpool, Chelsea e il Manchester United di quel Ferguson che avrebbe fatto carte false per affiancarlo a Cantona, ma furono tutte rifiutate. 
Perché a volte si crea un legame così magico e di equilibrio quasi alchimistico tra un giocatore e una squadra che non può essere ripetibile altrove: così Le God professò solo nell'Hampshire.
I suoi gol e le sue giocate sono di una spettacolarità ai limiti del reale, come il gol su calcio di punizione.. alla Le Tissier: punizione di seconda, tocco per Le God, palleggio e tiro a scavalcare la barriera nel sette.
L'ultimo passaggio epico della sua carriera si svolse il 19 Maggio 2001 in occasione dell'ultima partita della casa storica del Southampton: The Dell Stadium. I Saints ospitano i rivali dell'Arsenal di Arsène Wenger: risultato inchiodato sul 2-2, quando all'89' Le Tissier si inventa un gol di controbalzo sotto l'incrocio. 3-2 e omaggio al vecchio stadio. Sugli spalti ci sono migliaia di tifosi in lacrime per quello che è appena successo, un finale degno di un grande amore come quello tra Matt e il suo stadio. Inutile dire che dopo quel gol, Le Tissier non segnerà più, come un funambolo che cerca di recuperare un equilibrio ormai rotto prosegue con passo incerto fino al ritiro. Mai banale Matt.
Ora ha una villa nella sua isola natale, Guernsey, dove vive con un bicchiere di Coca e Rum sempre in mano e il ricordo del The Dell che si infiammava per Le God.
R.M.

Le God




mercoledì 5 ottobre 2016

LA RIVINCITA DI ACK
Le storie degli atleti paralimpici  hanno un filo comune, sono storie di persone che hanno trovato dentro di sé tutta la forza che possediamo in quanto esseri viventi perché "chi non ha affrontato le avversità non conosce la propria forza". La storia di Giovanni Achenza non fa eccezione. Una storia di forza, sacrificio, dolore ma soprattutto una storia di rivincita. Giovanni Achenza è Sardo, e orgoglioso di essere tale. Nato il 31 Luglio 1971 ad Ozieri (in provincia di Sassari), paesino che nel 1867 può vantare di essere stato rappresentato da un deputato speciale per il Regno D'Italia: un certo Giuseppe Garibaldi, che qualche segno del suo passaggio in questo mondo lo ha lasciato. Giovanni faceva il muratore e nel 2003 in seguito ad uno sciagurato incidente sul lavoro, a 32 anni, riporta una grave lesione midollare che lo rende paraplegico. Gli anni che seguono sono anni difficili, dove Ack, così lo chiamano i suoi amici, deve ritrovare se stesso, comprendere che la sua vita non è finita con quell'incidente e porsi dei nuovi obbiettivi perché un uomo senza un obbiettivo è come una zattera abbandonata in mezzo al mare. Tanta forza gli viene data dalla sua famiglia, dalla moglie e dalle due figlie. Poi, grazie ad un ortopedico, arriva l'incontro con l'handbike che da quel momento non lo lascia più. Dal 2007 inizia a correre in handbike nel paraciclismo facendo di una passione, uno sport e un obbiettivo. Così arrivano le prime soddisfazioni: Campione Italiano di handbike 2009, 2010, 2012, 2014, 2015 nella categoria H4. La prima rivincita di Ack
Nel 2009 arriva anche la convocazione nella nazionale italiana di paraciclismo che lo porta al Mondiale di paraciclismo dove si classifica ottavo. 
Poi arriva una delusione amara da digerire e che lo spinge a pensare di ritirarsi dall'attività sportiva. Non viene convocato dalla nazionale italiana di paraciclismo per le Paralimpiadi di Londra 2012. La sua frustrazione è grande e quella marea nera che ognuno ha dentro di sé gli dice di smettere, di fermarsi, di lasciar perdere tutto. Ma la forza di Ack ancora una volta ha il sopravvento. Decide di cambiare radicalmente, di porsi un nuovo, più ambizioso, obiettivo: diventare un atleta di Paratriathlon. E quindi aggiunge all'handbike anche il nuoto e la corsa con la wheelchair, cioè la carrozzina olimpica. Le gare di paratriathlon prevedono 750m di nuoto, 20km di handbike e 5km di corsa. Giovanni deve cambiare radicalmente i suoi allenamenti: in questo frangente viene a contatto con OTB e con il coach Federico Sannelli. Perché per il triathlon ci vuole un lavoro molto mirato e preciso: oltre ad allenare tre differenti discipline bisogna fare un lavoro di sintesi per integrarle fra loro. Giovanni capisce che Federico è l'allenatore giusto per trasmettergli una mentalità vincente.
Del cambiamento di mentalità di Ack, innescato dall'incontro con OTB, il suo allenatore mi ha raccontato un episodio significativo. Trovatisi in Canada, per una tappa di Coppa del Mondo di Paratriathlon, l'attenzione per ogni dettaglio era diventata talmente maniacale che Giovanni doveva stare attento anche all'alimentazione; essendosi stancato di mangiare pasta in bianco, si inventò la "Carbonara con la bresaola". Ricetta da lui creata per poter mangiare qualcosa di diverso ma pur sempre coerente con la vita da atleta. In quella tappa della coppa del mondo peraltro si classificò primo. 
La seconda rivincita di Ack passa proprio per il Paratriathlon poiché viene convocato dalla Nazionale Italiana e dove ottiene grandi risultati nella World Cup, come i secondi posti nelle tappe di Iseo, Besancon (FRA) e Sunshine Coast (AUS) e il primo posto nella tappa di East London in South Africa. 
La voglia di rivincita e la volontà di ottenere grandi risultati lo portano lontano dalla sua Sardegna; infatti si sposta con la famiglia a Riccione per essere in una posizione più agevole per le gare e gli allenamenti. I sacrifici, gli allenamenti e i risultati nelle gare producono i loro frutti e arriva la qualificazione alle Paralimpiadi di Rio 2016, dove per la prima volta nella storia il paratriathlon diviene disciplina olimpica.
Il 10 Settembre, nella gara olimpica, Giovanni Achenza da tutto il meglio di sé. Nella frazione di nuoto termina quinto, ma poi c'è l'handbike che è la sua specialità e così recupera fino ad arrivare appaiato al secondo posto con l'olandese Schipper e conclude infine la gara con la frazione di wheelchair al terzo posto. Bronzo Olimpico. Il più straordinario traguardo sportivo della sua vita. Proprio nella gara più importante Ack tira fuori il meglio di sé e ottiene questo grande successo che lo consegna nella storia dello sport olimpico italiano.
La grande rivincita di Ack è completa: la sua vita non è finita con quell'incidente del 2003, non è finita con la mancata convocazione per Londra 2012. Il guerriero che viene dalla Sardegna ha dimostrato che la grandezza di un uomo è dentro di sé e come recita una celebre poesia di William Ernest Henley:
"non importa quanto stretto sia il passaggio, 
quanto piena di castighi sia la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
io sono il capitano della mia anima."
R.M.
La medaglia più importante della sua vita. Rio 2016

Ack durante la gara di Rio 2016


Achenza e il suo allenatore Federico Sannelli


domenica 2 ottobre 2016

DIEGO PEROTTI
Essere figlio d'arte in Argentina non è una condizione facile. Essere figlio d'arte di un idolo Xeneizes a Buenos Aires è ancora più pesante. Il carico di aspettative che ci si porta dietro può letteralmente schiacciarti, specialmente se sei un ragazzo timido e gracile. Specialmente se erediti il cognome da El Mono Perotti e il nome da El Pibe De Oro Diego Armando Maradona.  Papà Hugo Perotti giocò con Maradona nel Boca e vinse insieme a lui un campionato nel 1981, segnando nella partita più importante su assist del Diez. Il 26 Luglio 1988 El Mono alla nascita di suo figlio si ricordò di quell'assist ricevuto dal più grande 10 della storia del calcio e lo omaggiò chiamando il figlio con il suo nome. Diego Perotti.
La vicenda di Hugo Perotti è singolare, un miscuglio di fato, magia, passioni sregolate e sfortuna; o più semplicemente El Mono era un fuoco che ardeva con troppa intensità e per questo si è spento presto, ma quanto brillava.. A soli 19 anni vinse la Copa Libertadores con il Boca Juniors decidendo la finale con una doppietta e a soli 25 anni si ritirò dal calcio per un infortunio al ginocchio. Una stella cadente che ha lasciato il segno del suo passaggio nei quartieri della Boca
Diego cresce nelle giovanili del Boca, ma soffre, gli allenatori sono durissimi con lui che è troppo fragile, troppo gracile per reggere quella pressione e allora smette di giocare a calcio per studiare. Ma il richiamo del campo è troppo forte, e per un ragazzo con quel nome e quel cognome il destino ha ben altri piani. Diego si presenta ad un provino per il Deportivo Moròn e viene preso, naturalmente.  Gli basta un anno nelle giovanili per poter essere titolare con la prima squadra ed entrare nei radar di uno dei migliori talent scout del calcio europeo: Monchi, direttore sportivo del Siviglia, a cui sono sufficienti 200 mila euro per portarlo nel club andaluso.  
Viene schierato come esterno nel 4-4-2 e a 21 anni, con un gol di testa allo scadere contro il Deportivo la Coruna, regala al Sevilla la qualificazione per la Champions League e suscita l'interesse della Juventus che arriva ad offrire 14 milioni di euro per lui ma l'offerta viene respinta dagli andalusi.
Proprio quando tutto sembra essersi messo per il meglio per El Monita, la "scimmietta", gli infortuni iniziano a perseguitarlo: dall'autunno del 2011 a metà del 2013 non gioca più di 7 partite consecutive, così torna al Boca Juniors in prestito ma gli infortuni lo seguono anche dall'altra parte dell'oceano e in totale gioca solamente 32 minuti. A 25 anni, come suo papà, pensa seriamente al ritiro. 
Con 350 mila euro il Genoa di Gasperini gli da fiducia e lo acquista. Curioso come la rinascita di questo giocatore che viene dal Boca, squadra fondata da genovesi, passi proprio per La Superba ma nei calciatori argentini la componente destino è spesso rilevante. 
Perotti in Serie A rinasce, è di nuovo quel giocatore imprevedibile sulla fascia che regala delle gemme ai propri attaccanti. 
Nel Gennaio 2016 arriva una chiamata che non ammette un rifiuto e Diego passa alla Roma alla corte di Spalletti che non lo impiega come esterno ma dietro le punte come Enganche, ruolo che in certi circoli in Argentina dicono sia morto con il ritiro di  Juan Roman Riquelme, non a caso l'idolo indiscusso di Diego Perotti. L'Enganche è il "gancio" tra il centrocampo e l'attacco, è l'uomo che sente le pulsazioni della partita e ne decide il ritmo del battito cardiaco. 
A Roma stiamo vedendo Perotti al suo meglio: giocate illuminanti, assist, gol decisivi, tanta passione e poi quei dribbling.. Il modo di dribblare degli Argentini non è lo sfavillio circense dei brasiliani, ma una danza sui tempi di gioco. Un Tango, che deriva dal verbo "tangere, toccare" e il dribbling degli argentini e la loro magia nel gioco risiede proprio nel tocco del pallone. 
L'inizio della stagione corrente di Diego Perotti è di alto livello: 5 partite, 3 gol e 2 assist; e lo scettro di rigorista ereditato dalla Leggenda con il numero 10 che pochi giorni fa ha spento 40 candelabri per il suo compleanno.
Questa sarà la stagione di El Monita Diego Perotti, un danzatore del gioco del calcio.



mercoledì 28 settembre 2016

DRIES MERTENS, O'Folletto
Svegliarsi la mattina, aprire le finestre e trovarsi davanti il Golfo Di Napoli con il Vesuvio che veglia sulla città dalle 500 cupole, bersi un buon caffè al fianco della propria moglie e della propria cagnolina a Palazzo Donn'Anna non è cosa da tutti.  Ma così inizia la giornata Dries Mertens, nella sua incantevole dimora a Posillipo. Decisamente un salto notevole per un ragazzo nato a Leuven, paesino di 100mila abitanti nelle Fiandre nota per aver ha dato i natali alla celebre birra Stella Artois
Dopo essere cresciuto nelle giovanili dell'Anderlecht Dries trova la sua fortuna calcistica in Olanda, nell'Agovv Apeldoorn grazie al tecnico John Van Den Brom (attuale allenatore dell'AZ)
dove con la bellezza di 29 reti viene eletto MVP della seconda divisione olandese.  Passa poi all'Utrecht brillando con 21 gol e 34 assist in 86 gare. Ruolino di marcia impressionante che lo porta al definitivo salto di qualità con il Psv Eindhoven in cui esplode letteralmente con dei numeri da capogiro (45 reti e 43 assist in 88 partite) e con la conquista di Coppa e Supercoppa D'Olanda
Questa sua crescita esponenziale può essere vista anche come conseguenza di un disegno più grande, ideato da Michel Sablon, che molti definiscono come il padre del movimento calcistico belga attuale. Sablon in veste di direttore tecnico della nazionale belga ha portato imponenti innovazioni nel movimento calcistico belga, tra cui un opuscolo contenente un decalogo di indicazioni da seguire per i settori giovanili; puntando su un calcio molto tecnico e teorizzando un modulo di gioco nazionale, il 4-3-3, con ali larghe e sempre nel vivo del gioco. Non a caso si può notare come l'attuale selezione belga vanti ali e trequartista del calibro di Eden Hazard, De Bruyne, Carrasco e... Mertens
Il 24 Giugno del 2013 Dries viene acquistato dal Napoli per 10 milioni di euro. A Napoli mostra tutto il suo talento, ma solamente per 20/30 minuti a partita, è il ricambio di lusso più prestigioso della Serie A. Sostituisce Insigne o Callejon nel gioco di Rafa Benitez e lo fa divinamente, con umiltà ed intelligenza. Qualità che si possono desumere anche dalla sua sfera personale, dal fatto che sia laureto in Scienze Motorie e sognava di diventare insegnante di educazione fisica come suo padre Herman, con il quale è molto legato e che lo ha spinto fin da subito ad andare a Napoli. Infatti la mattina in cui il telefono di casa Mertens squillò, ricevendo la telefonata di Benitez, papà Herman disse al figlio "Ti cerca il Napoli, non fare lo sciocco, accetta e basta. Quando chiama un club così prestigioso bisogna soltanto dire si." 
E se questo non vi basta per capire chi è Dries Mertens allora dovete sapere che nel 2015 ha sposato la sua fidanzata storica Katrin Kerkhof, che viveva anch'essa a Leuven. Si sono conosciuti alla festa di un vicino di casa, ad appena 12 anni. 
Questo ragazzo poi ha creato un legame speciale con la città di Napoli, città dove pulsa in ogni via, in ogni piazza e in ogni casa l'amore per il calcio. Un amore viscerale e appassionato che raggiunge picchi altissimi quando il San Paolo si riempie per gli azzurri
Mertens da 4 anni incanta la Serie A stregando gli avversari con un movimento che è sempre lo stesso ma che risulta ogni volta immarcabile. Punta l'uomo dalla fascia sinistra, rientra sul destro e poi calcia a giro sul secondo palo.  Movimento che in quest'annata ha già fatto le sue prime vittime (chiedete a Pescara e Milan). Questa capacità di realizzare un movimento del genere, sempre uguale a se stesso ma allo stesso tempo sempre efficace, l'ho vista solo in Arjen Robben, movimento che però si sviluppa sulla fascia destra per favorire il mancino magico dell'olandese volante.
Dries Mertens dopo aver raggiunto le 100 presenze in A, merita maggiore continuità in questa stagione perché ha dimostrato di avere tutto per essere una stella luminosa in questa Serie A.
Incantaci ancora O'Folletto!
R.M. 

giovedì 22 settembre 2016

ANDREA NALINI,  La Forza dei Sogni
La storia di Andrea Nalini è di quelle che fanno sognare chiunque abbia calciato un pallone, e che mentre lavora in ufficio, seduto con le gambe sotto la scrivania, fantastica di sentire il proprio nome chiamato dallo speaker dello stadio e di entrare sul campo sentendo il profumo dell'erba appena bagnata e il calore dei tifosi sugli spalti. La sua storia è un incoraggiamento a tutti quei ragazzi che dopo una giornata di lavoro, o di scuola, trovano le forze di prendere la strada del campo con il borsone in spalla, ed inseguire quel pallone che, non importa in quanti diranno il contrario, ma non è solamente un gioco. Andrea era uno di voi. Andrea è uno di voi che non ha mai smesso di crederci perché "se in un sogno credi tanto prima o poi si avvera"
Questo sua immensa fede nel suo sogno traspare anche dalle dichiarazioni che mi ha gentilmente rilasciato in esclusiva.
Solamente 4 anni fa giocava in Serie D nella Virtus Vecomp Verona, lavorando di giorno come magazziniere in un'azienda che produce Würstel e allenandosi la sera con i suoi compagni. Le gambe pesanti per aver indossato le scarpe antinfortunistica, la stanchezza dei turni di lavoro, ma quel sogno sempre in mente, più forte di tutto, che lo portavano al campo ad inseguire quel benedetto pallone. 
E poi la prima occasione, durante una finale playoff tra Virtus Vecomp Verona e Casertana, Andrea Nalini gioca una gran partita tanto da stregare gli osservatori della Salernitana che gli offrono un contratto. Sono tre anni importanti in cui Andrea può mettersi in mostra ma niente è regalato a questo ragazzo nato a Isola Della Scala, in provincia di Verona. Gli infortuni gli riservano momenti duri come lui stesso mi ha rivelato: "i momenti più duri sono quelli in cui non riesci ad esprimere te stesso perché la natura ti ferma, per cui i miei infortuni. Per prima la pubalgia, girando tutta Italia per venirne fuori e poi la condropatia al ginocchio destro. Due stop molto lunghi dove sia fisicamente che mentalmente reagire è dura." Ma "nella testa c'era sempre la convinzione di quello che sapevo fare, di quello che volevo dimostrare e sapevo che prima o dopo una soluzione a tutto si sarebbe trovata." 
E così è stato. La sua determinazione ha portato buoni frutti, 39 partite 3 gol e 12 assist con la Salernitana e l'approdo dalla serie C alla serie B. Proprio l'anno scorso in serie B è stato cruciale per la vita di Andrea Nalini. Anche se per via degli infortuni ha giocato poco, sono bastati 677 minuti di calcio giocato per dare abbastanza ragioni al Crotone dei miracoli, neopromossa in Serie A, da portarlo con sé nella massima serie. Per la sua prima stagione in Serie A il Crotone gli riserva la maglia numero 9, che l'anno scorso al di là della Manica è stata il simbolo di una squadra che ha creduto talmente tanto nel proprio sogno da realizzarlo. E la vestiva un certo Jamie, con una faccia sempre incazzata, che ha avuto una parabola molto simile al nostro Andrea Nalini. 
Quando gli ho chiesto del suo ruolo nel Crotone mi ha risposto che "finora sono stato impiegato sempre come quinto nel 3-5-2 però questo ruolo non esalta molto le mie caratteristiche che sono quelle di offendere ed attaccare. Diciamo che il ruolo che più mi esalta è l'esterno nel 4-4-2 o il terzo d'attacco con il 4-3-3."
E della maglia numero 9 mi ha detto che "volevo la maglia numero 7 ma era occupata da Palladino e allora ho preso la 9 che è la maglia con cui fin da piccolo ho tirato i primi calci al pallone e che mi ha accompagnato per tutte le giovanili, per cui ha un valore affettivo."
Per questa sua prima stagione in serie A, a 26 anni, volevo sapere qual'è il suo sogno, perché fino ad ora i suoi sogni lo hanno portato a viverne uno che infiamma gli stadi. E nella sua risposta c'è tutta la sua voglia di rivincita sulla vita: "Il mio sogno per questa stagione è sfruttare al meglio questa opportunità per dare continuità e premio a tutti i sacrifici fatti fino ad ora." 
Questo è Andrea Nalini, uno che ha combattuto per arrivare dov'è ora e che ha realizzato il sogno di tutti noi che abbiamo tirato un pallone verso quei tre pezzi di ferro, sperando di veder la rete gonfiarsi. E allora ogni volta che sentirete lo speaker dello stadio presentare "Con la maglia numero 9.. Andrea Nalini" sorridete perché siamo un po' tutti noi.
Forza Andrea
R.M. 




sabato 17 settembre 2016

MARKO PJACA, l'Houdini di Zagabria
Il 6 Maggio 1889 a Parigi veniva aperta al pubblico ufficialmente, per l'Esposizione Universale, La Tour Eiffel. Monumento simbolo di una città e di una nazione Intera. 106 anni dopo, il 6 Maggio 1995, nasce a Zagabria Marko Pjaca. Giovane monumento all'Arte del Dribbling, che se brillerà come gli astronomi del pallone prospettano sarà la stella più splendente di una città e di una nazione intera.
 I suoi genitori erano due lottatori nel vero senso della parola: La Madre campionessa di Judo e il Padre campione di lotta libera, e al piccolo Marko hanno trasmesso il senso della disciplina e dell'agonismo. Pjaca però fin da piccolo decide di non seguire le orme dei genitori "perché in pochi conoscono il più forte wrestler del mondo, ma tutti sanno chi sono i calciatori migliori del mondo" e chi è nato lo stesso giorno della Tour Eiffel porta con sé un'ambizione speciale.
Già a 9 anni viene ingaggiato dalla sua squadra del cuore, la Dinamo Zagabria. La Dinamo è una delle più grandi fucine di talenti del mondo calcistico, 15 giocatori sui 21 convocati dalla Croazia ad Euro 2016 sono cresciuti nel vivaio dei Modri. Questa incredibile produzione di talenti la si deve ai metodi di allenamento professati in quel di Zagabria. Da quando entrano nell'Under 14 infatti i ragazzi del vivaio per 5/6 giorni a settimana si allenano 8 ore al giorno, seguiti da allenatori e preparatori che sviluppano allenamenti personalizzati per ogni singolo ragazzo. Forgiato da anni di allenamenti Steineriani Marko Pjaca è cresciuto fisicamente (è alto 1,86m) e tecnicamente con in mente un unico obbiettivo: Il Grande Calcio Europeo. A 17 anni viene mandato in prestito alla Lokomotiva Zagabria dove fa il suo esordio nella massima serie croata e dove si fa le ossa prima di tornare a casa alla Dinamo. La stagione 2014/15 è quella della consacrazione come miglior talento del calcio croato, in una stagione con 14 gol e 6 assist, impreziosita dalla tripletta contro il Celtic in Europa League. 
Marko ha una vocazione però, che segue con cieca fedeltà, ed è quella del Dribbling. Ne è ossessionato e ne fa una ragion d'essere. Il suo soprannome è il Ronaldinho dei Balcani, per via della sua adorazione lucida dell'ex numero 10 della Seleção, lucida perché non è un'adorazione fine a sé stessa ma il piccolo Pjaca ne studia i movimenti e ne carpisce le mosse con cui l'illusionista verdeoro stordisce i suoi avversari. 
La partita che consegna Marko Pjaca al Grande Calcio è Spagna-Croazia ad Euro 2016, che si giocano proprio nella terra della Torre realizzata da Monsieur Eiffel. Il Ronaldinho dei Balcani ammattisce letteralmente le furie rosse con dribbling e giocate a velocità spaziali. Chiude l'Europeo come il giocatore con il maggior numero di dribbling in relazione ai minuti giocati ed è subito chiaro a tutti che il suo futuro non sarebbe stato più in Croazia.
La chiamata dal Grande Calcio infatti non tarda ad arrivare ed è più che autorevole: la Juventus pentacampione d'Italia. Marko si presenta a Torino con grande umiltà e con in spalla il bagaglio di disciplina e senso del dovere che la Dinamo e la sua famiglia gli hanno fornito. Per la prima volta in vita sua va a vivere da solo, infatti fino a pochi mesi fa viveva ancora con mamma e papà a Zagabria, contribuendo alle spese familiari. 
Questo è Marko Pjaca, un ragazzo semplice, attaccato alla sua famiglia, con grande professionalità e ambizione. Un giocatore di enorme talento, un pioniere del dribbling e della giocata spettacolare.
In questa stagione aspettiamoci di essere stupiti dall'Houdini di Zagabria, la Serie A ha un grande bisogno di talento e di spettacolo e Marko Pjaca è un artista del Dribbling nato lo stesso giorno della Tour Eiffel. Bellezza al potere. 
R.M.




domenica 11 settembre 2016

LA LEGGENDA DEL RE PESCATORE
In un afoso pomeriggio colombiano si incontrano l'Atletico Junior e il Deportivo Pasto. Il risultato è inchiodato sullo 0-0 e la gente sugli spalti mugugna. L'allenatore dell'Atletico, Julio Avelino Comesaña, si gira verso la panchina e chiama un ragazzo di 22 anni che non aveva mai giocato con i professionisti prima d'ora.  Il ragazzo si alza, emozionato dall'imminente esordio con la sua squadra del cuore, e si dirige a fianco del quarto uomo. Il pubblico dell'Atletico Junior inizia a fischiarlo. Non lo conoscono e non gli danno fiducia. Ma Il ragazzo è abituato, nessuno gli ha mai regalato nulla nella sua vita, figuriamoci se gli regalano qualcosa di così importante come la fiducia. Entra e il primo pallone che tocca lo trasforma in rete. 1-0. Pochi minuti dopo altra palla dal limite. Destro a giro. 2-0. Esordio con doppietta per il ragazzo fischiato dal suo pubblico, che ora è tutto in piedi a cantare il suo nome. Era il 1 marzo 2009 e quel ragazzo si chiamava Carlos Arturo Bacca. E fino a pochi mesi prima la mattina vendeva il pesce insieme al padre Gilberto al porto di Barranquilla e al pomeriggio faceva il controllore sull'autobus per la tratta Barranquilla-Puerto Colombia (150km). Da quel pomeriggio la sua vita cambia, finalmente è un professionista nel settore delle reti. Non più reti da pesca ma reti che contornano una porta da calcio e ogni volta che il pallone viene catturato da quelle reti Carlos alza le mani verso il cielo ringraziando Dio. 
Con l'Atletico Junior si mette in mostra a tal punto che un salto di qualità pare inevitabile. Infatti viene cercato dal Boca Junior prima e dal Lokomotiv Mosca poi. Proprio con i Russi sembra fatta quando si inserisce il Club Bruges. Nel Gennaio del 2012, a 25 anni, arriva nel calcio Europeo "El Peluca", chiamato così per via della folta chioma di capelli che teneva lunghi da piccolo. Trascina i nerazzurri fino al preliminare di Champions League, e dopo l'eliminazione del Club Bruges, si accorge che questa città fiamminga è troppo piccola per lui. Così inizia un'asta tra diversi club europei che vede spuntarla il Sevilla di Emery. A Siviglia avviene la sua consacrazione e l'iscrizione al club degli attaccanti più prolifici d'Europa. 49 gol 108 presenze conditi da due vittorie dell'Europa League, con tanto di doppietta nella finale del 2015 contro il Dnipro, dove due conoscenze del nostro calcio salgono in cattedra: Kalinic firma l'1-0 per il Dnipro e Banega regala un assist a Carlos vincendo anche il titolo di MVP della finale. 
Dopo questa finale Bacca passa al Milan per 30 milioni di euro.Nella prima stagione con i rossoneri segna 20 reti in 43 partite, capocannoniere della squadra. Ma tutto questo non basta, nell'estate appena trascorsa il Milan cerca di venderlo per monetizzare. Ancora una volta non gli è concesso nulla, nemmeno la fiducia. E Bacca risponde nell'unico modo che conosce, riempiendo le reti: prima partita di Serie A e Carlos segna una tripletta al Torino che regala 3 punti ai rossoneri. 
Dalle reti del porto di Barranquilla alle reti della Scala Del Calcio, sempre con le mani rivolte verso il Cielo.
Questa è la Leggenda del Re Pescatore, Carlos Arturo Bacca Ahumada.

R.M.





sabato 10 settembre 2016

EVER BANEGA El Tanguito
A Rosario, nella città del futbòl, c'è un derby tra due selezioni giovanili che è sentito dai Rosarini come il Superclàsico Boca-River: Alianza Sportiva contro Grandoli Fc. La sfida ha luogo su quei campi impolverati che si trovano solo in Argentina, dove giocando si respira a pieni polmoni polvere e futbòl. Le partite della classe '87 rimangono negli annali. I numeri 10 delle due selezioni sono entrambi piccoli, uno in particolar modo, ma sono di gran lunga i migliori giocatori in campo. Nell'Alianza Sportiva Il numero 10 è Ever Banega mentre per il Grandoli Fc veste quella maglia Lionel Andrés Cuccitini, meglio conosciuto come Leo Messi. Banega ricorda quelle partite. "Era uno spreco di tempo perché avremmo giocato contro un nano e ci avrebbe fatti sembrare tutti degli stupidi. Era piccolo, la divisa era troppo grande per lui, ma quello che faceva era già fenomenale."  In realtà Ever non avrebbe neanche dovuto giocare perciò precisa:"Ero in una categoria di età inferiore, ma mio papà era l'allenatore della classe 1987 e così era solito farmi giocare in quella categoria." Infatti Banega nasce il 29 Giugno 1988 nel Barrio Saladillo a Rosario. La sua infanzia è come quella di tanti ragazzini nati nel Barrio, non ci sono soldi e ogni cosa va guadagnata. Perfino le scarpe da calcio erano da condividere con i fratelli. "Luciano giocava all'una, Cesàr alle tre e poi arrivavo io". Ma il suo talento non era come quello di tanti, il talento di Ever era evidente e fu la sua ancora di salvezza.  J.Griffa, grande maestro di futbòl argentino, che ha avuto come apprendisti gente del calibro di Valdano, Batistuta e Tevez, lo nota e lo porta da Rosario a Buenos Aires sponda Xeneizes. Griffa sul Tanguito dichiara che era bravo tecnicamente ma quello che mi sorprese davvero era la sua straordinaria mentalità. Questa mentalità lo porta ad essere titolare a 18 anni nel Boca Juniors e a vincere la Copa Libertadores nel 2007. A 19 anni, 19 è il suo numero fortunato tanto da tatuarselo sul polpaccio destro insieme allo scudetto del Newell's Old Boys (squadra di cui è tifoso devoto), arriva la chiamata Europea. Ever Banega è un nuovo giocatore del Valencia. Ma quelli che dovrebbero essere gli anni della sua consacrazione sul palcoscenico europeo sono invece caratterizzati dalle sbandate fuori dal campo. Un'escalation di Alcol, movida e allenamenti con pesanti postumi da sbornia che culmina con la rottura di tibia e perone. Infortunio che non avviene su un campo da calcio ma da un benzinaio. Banega non si ricorda di mettere il freno a mano alla sua Audi A8 e quando questa inizia a muoversi prova a fermarla con la gamba. Risultato: 6 mesi di stop.
Iniziano anni difficili, fatti di prestiti e prestazioni anonime, fino a che non arriva la svolta. E la svolta ha un nome e un cognome. Unai Emery.  Che lo allena prima a Valencia e poi nel Sevilla tre volte vincitore dell'Europa League. Emery lo inventa falso diez, in un ruolo più offensivo in cui Ever può spaziare nella metà campo avversaria e inventare assist al bacio, come quello in finale di Europa League contro il Liverpool. Geniale. In entrambe le finali Banega viene nominato El Hombre del partido con conseguente titolo di MVP della Finale. Per la stagione 2016-17 Banega firma per l'Inter dove avrà il compito di ammaliare S.Siro con le sue giocate fenomenali, regalando assist per i nerazzurri. Ma se volete sapere chi è Ever Banega e qual'è il suo ruolo, dovete sentire le parole di uno dei massimi conoscitori del calcio argentino in Italia. Lele Adani. Per comprendere Banega "si deve uscire dal concetto di ruolo per entrare nel concetto di pensiero calcistico." Questo è Banega, un anarchico della tattica, un funambolo del pensiero calcistico.
Bienvenido Tanguito,
R.M.


martedì 6 settembre 2016

Gonzalo Gerardo Higuain
Buenos Aires. Ottobre 1988. Il piccolo Gonzalo ad appena 10 mesi è ricoverato d'urgenza, una meningite fulminante lo manda in coma. I medici hanno poche speranze ma il bambino ha una forza speciale, esce dal coma e si riprende. Suo padre, Jorge Higuain detto El Pipa, non ha dubbi. "Questo bambino è rimasto per qualche motivo." Si, quel bambino ha il profumo dei campioni, quell'alone di fascino magnetico che conquista tutto e tutti.  Come dirà madridista: "no es un milagro, es Gonzalo Higuain". Ed è vero, non è un miracolo, è Gonzalo Higuain. Quella forza che ha fatto guarire il piccolo Pipita, è la stessa che lo spinge a porsi degli obbiettivi e poi a raggiungerli, la stessa forza che aveva la sua famiglia. Perché se vuoi vedere quanto è forte un albero devi guardarne le radici, e le radici di Higuain sono in una famiglia di duri. Il Suo Viejo, El Pipa, era un difensore, un lottatore vero dal carisma palpabile. Basti pensare che è stato capitano sia al Boca Juniors che al River Plate, privilegio riservato a pochissimi. Ma il più simile a Gonzalo, a detta dei suoi parenti, è il nonno materno. Santos Zacarias. Allenatore di Boxe campione del mondo con Juan Martìn Coggi. Il nonno era un Ganador. Non mollava mai, ci credeva sempre, anche quando tutti gli altri gli dicevano che era impossibile. Ma alla fine aveva sempre ragione lui. Gonzalo Higuain è questo prima di tutto, un Ganador, uno che non molla mai, che insegue la vittoria perché non sa fare altro. Questa ossessione per la vittoria è il motivo che lo ha spinto a cambiare aria dopo una stagione leggendaria con il Napoli, 36 gol in 38 partite di Serie A, come lui nessuno mai. E in Italia c'è solo una squadra che ha la sua stessa ossessione, tanto da avere come manifesto ideologico l'adagio vincere non è importante, ma è l'unica cosa che conta. La Juventus. Il suo è il trasferimento più costoso della storia della Serie A, 90 milioni di euro. Il giocatore che solo pochi mesi prima sigillava il record di gol con una tripletta al Frosinone e con un 36esimo gol irreale (Mertens si accentra dall'angolo sinistro dell'area di rigore,  vede Gonzalo e lo serve con un pallone morbido. Il Pipita ha sei giocatori avversari intorno a sé e deve essere rapido, così stoppa di petto e in acrobazia di destro segna un gol leggendario. La telecronaca di quegli istanti magici di Maurizio Compagnoni e Lele Adani è già parte della storia del giornalismo sportivo italiano.) adesso è assalito dalle critiche per il suo trasferimento e per lo stato di forma in cui si è presentato a Vinovo. Ma Gonzalo è forte, e orgoglioso. El Mundo Deportivo ai tempi del Real Madrid ci aveva visto bene: "Higuain è un duro, soprattutto di testa, sopravvive alle critiche, alle cospirazioni e alle ferite con una fede infinita nelle sue capacità". E questo fa anche nei primi mesi in bianconero e alla prima occasione ufficiale. Juventus-Fiorentina, alla prima di Serie A, entra in campo al 21esimo del secondo tempo sull'1-0 facendo alzare tutto lo Juventus Stadium, ma pochi istanti dopo è la Viola a segnare portando il risultato sull'1-1. Gonzalo è già chiamato a risolvere la prima partita.  9 minuti dopo il suo ingresso in campo il Nueve legge prima di tutti l'azione e si avventa sul pallone facendolo passare tra palo e portiere. Dimostrando tutta la sua capacità di segnare, perché come ha dichiarato il suo allenatore, Allegri, a fine partita. Il gol è la sua arte. E cos'altro ci si poteva aspettare dal figlio di un calciatore e di una pittrice? Higuain nella sua nuova avventura è un giocatore più maturo, pronto ad essere il miglior Gonzalo di sempre. E non chiamatelo più Pipita, ora è cresciuto e tutti i suoi compagni lo chiamano Pipa. Finora abbiamo visto il meglio del Pipita, da adesso aspettiamoci di vedere il meglio del Pipa. 
Buena Suerte Pipa.
R.M.

domenica 4 settembre 2016

Il Calcio di Fidia
Questo Blog nasce con l'intento di raccontare il mondo del calcio facendo dei ritratti dei protagonisti di questo magico sport, inteso come epica moderna. Le gesta in guerra degli eroi del passato sono ora per noi le gesta atletiche degli sportivi. Passioni, tormenti, paure e ambizioni sono gli stessi sentimenti che muovevano gli eroi dell'antica Grecia, e che ora spingono i nostri campioni alla conquista della Gloria. E proprio dall'antica Grecia arriva Fidia, il più celebre scultore di ogni epoca, che ritraeva vite intere in una singola scultura. L'intera essenza di un essere umano veniva catturata e poi immortalata attraverso una scultura, Fidia perciò altro non era che un ritrattista, un uomo in grado di raccontare vite umane con lo spirito di osservazione e la capacità di contestualizzare degna dei migliori storyteller del nostro tempo. In questo blog quel che cercherò di fare sono delle sculture, dei ritratti di moderni eroi, dei campioni che riempiono il nostro immaginario e stuzzicano la nostra fantasia.

Meloni Riccardo.